Swag di Justin Bieber: R&B raffinato, testi senza anima

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Con l’uscita a sorpresa di Swag, il settimo album in studio di Justin Bieber, il cantante canadese inaugura una nuova fase della sua carriera: libera da vecchi vincoli manageriali, ambiziosa sul piano sonoro, ma ancora claudicante dal punto di vista narrativo.
Pubblicato con pochissima promozione e in concomitanza con il lancio del suo nuovo brand Skylrk (addio Drew House), Swag è stato presentato come l’opera più “pura” e “autentica” del trentunenne artista. Ma se musicalmente l’album affascina, sono i testi a tradirne le intenzioni.
Swag è una celebrazione elegante dell’R&B fine anni ’80 e dell’alt-pop contemporaneo.
L’apertura con All I Can Take è un manifesto stilistico: synth nostalgici, drum machine riverberate, atmosfere che ricordano le produzioni di Kashif e Jimmy Jam & Terry Lewis.
L’influenza di produttori come Mk.gee e Dijon si sente forte e chiara in brani come Daisies e Yukon, dove la chitarra svetta sopra beat dilatati e bassi caldi.
Anche se Bieber non cerca la hit da classifica, la produzione — firmata da nomi stellari come Carter Lang, Eddie Benjamin, Daniel Caesar e Daniel Chetrit — conferisce a Swag una coerenza musicale sorprendente.
In Too Long e Zuma House emerge la sua vocalità vellutata, capace di oscillare tra il falsetto malinconico e toni più gospel. Spiccano anche le collaborazioni con Lil B (Dadz Love), Gunna e Sexyy Red, quest’ultima protagonista di una performance tanto sopra le righe quanto memorabile in Sweet Spot.
Tuttavia, dove l’album cede clamorosamente è nei testi. Molte tracce sono dedicate alla moglie Hailey e al figlio Jack, ma le liriche scivolano facilmente nel banale.
“That’s my baby, she’s iconic”, canta in Go Baby, citando persino la custodia per iPhone della linea Rhode (brand di Hailey).
Frasi come “Spider-Man sul tuo culo” o “consultare un farmacista per quella bruciatura da sfregamento” — prese da 405 e Sweet Spot — suscitano più imbarazzo che complicità.
Anche i momenti più personali, come Walking Away o Therapy Session, non riescono ad andare oltre una superficie emotiva troppo levigata, nonostante la presenza di intermezzi parlati con l’influencer Druski, che dovrebbero simulare sedute di terapia.
Più che profondità, trasmettono disagio. E mentre Bieber cerca di decostruire la sua immagine pubblica — segnata da anni sotto i riflettori, problemi di salute mentale e turbolenze con i media — lo fa con affermazioni semplicistiche, senza vera introspezione.
L’album, lungo ben 21 tracce, soffre anche per la mancanza di una direzione chiara.
È come se Bieber avesse abbozzato un diario musicale, in parte spirituale, in parte erotico, ma senza un vero filo conduttore. Il caos creativo, giustificato dalla “piena libertà artistica” riconquistata dopo la separazione da Scooter Braun, si trasforma in autoindulgenza.
Certo, Swag è il suo lavoro più sonicamente avventuroso dai tempi di Journals (2013) o Purpose (2015), e dimostra quanto Bieber voglia affrancarsi dall’etichetta di teen idol per cercare una voce adulta e complessa.
Ma questa voce, almeno in questo disco, resta ancora in cerca di maturità e sostanza.
Swag è un disco affascinante da ascoltare, ma deludente da analizzare.
Rappresenta un passo importante per Justin Bieber in termini di produzione e identità musicale, ma anche una grande occasione sprecata per mostrare maturità lirica.
Tra brani sensuali, gospel lo-fi e confessioni mascherate da meme virali, resta un album che suona benissimo ma dice molto poco. Un bel contenitore, ma ancora troppo vuoto.