
#image_title
Eni è finita nuovamente al centro delle polemiche; quando Antonio Tricarico ha ricevuto la convocazione alla stazione di polizia nell’ottobre scorso, non era del tutto sorpreso.
Direttore della ONG italiana ReCommon, Tricarico sapeva che la sua organizzazione aveva toccato un nervo scoperto: aveva infatti intentato un’azione legale contro Eni, il colosso energetico italiano, per presunti danni climatici.
L’azienda, nota per la sua propensione ad azioni legali contro critici, questa volta ha fatto un passo ulteriore: ha avviato un procedimento penale per diffamazione, scatenato da dichiarazioni rilasciate da Tricarico in un’intervista televisiva.
“Sì, mi sento intimidito”, ha dichiarato Tricarico, “ma il problema è più ampio. C’è un tentativo sistemico di mettere a tacere il dissenso”.
E non è il solo a pensarlo. Secondo gli ambientalisti, Eni sta portando avanti una strategia deliberata per soffocare la critica pubblica.
Dal 2019 l’azienda ha intentato almeno sei cause per diffamazione contro giornalisti, ONG e media, inclusi Rai, Greenpeace e Il Fatto Quotidiano. I danni richiesti superano i 10 milioni di euro.
Sebbene Eni sostenga di agire esclusivamente per difendere la propria reputazione da “dichiarazioni false e diffamatorie”, numerose organizzazioni internazionali vedono in queste azioni un modello di SLAPP (Strategic Lawsuit Against Public Participation) – cause legali strategiche contro la partecipazione pubblica.
Le SLAPP sono spesso utilizzate per intimidire e zittire le voci critiche, più che per ottenere giustizia.
Nel 2024, una coalizione di ONG tra cui Reporter Senza Frontiere e Transparency International ha etichettato Eni come “Slapp Addict of the Year”.
La causa in questione era stata intentata contro Greenpeace e ReCommon per aver definito le attività della compagnia come “crimini climatici”.
Eni, in quel caso, non ha chiesto risarcimenti economici, ma il divieto di utilizzare certi termini nelle campagne, un segnale che secondo Tricarico rappresenta una nuova fase della strategia legale dell’azienda: “È uno Slapp 2.0. Non chiedono più soldi, ma cercano comunque di bloccare la critica”.
Nonostante le affermazioni di Eni secondo cui non ci sarebbe alcuna SLAPP, il comportamento dell’azienda mostra una tendenza preoccupante.
Con una quota dello 0,46% delle emissioni globali storiche – secondo i dati del database Carbon Majors – Eni è tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico.
Eppure, anziché affrontare il dibattito pubblico e giudiziario sulla propria responsabilità ambientale, sembra preferire la via del silenzio forzato.
In tribunale, i risultati non sono stati lusinghieri per la compagnia: ha già perso tre cause su sei, e in un altro caso si è arrivati a un accordo extragiudiziale.
Tuttavia, per ONG e giornalisti, ogni causa rappresenta un’ingente perdita di tempo, risorse e energie – esattamente ciò che rende le SLAPP strumenti così insidiosi.
Il confronto tra attivisti e giganti del fossile come Eni si sta dunque spostando sempre più nelle aule giudiziarie.
E se da un lato le aziende cercano di proteggere il proprio brand, dall’altro le organizzazioni civiche denunciano un clima crescente di censura legale che mina il diritto di critica e la libertà di espressione.