Festival di Sanremo: questione di feeling? No, solo questione di numeri

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Premessa fondamentale, non è il solito articolo che lancia lì, a caso, i nomi dei presunti cantanti scelti per il prossimo Festival di Sanremo.
Per quelli bisogna aspettare il 2 dicembre quando Carlo Conti, nel Tg delle 20, li annuncerà.
Per chi continua, ogni giorno, ormai da due mesi a questa parte a fare liste, ipotesi, congetture, beh, per la teoria delle probabilità, avendoli citati tutti o quasi, qualcuno lo indovinerà.
A noi poco interessa, non ci cambia la vita sapere chi si esibirà sul paco dell’Ariston a febbraio; sono altre le cose che dovrebbero tenere viva la nostra attenzione, ma questo è un altro discorso.
Dunque, nella conferenza stampa di presentazione di Sanremo Giovani a Carlo Conti, direttore artistico della kermesse, come è facile immaginare, tante domande sono state poste sul Festival.
Oltre a Conti che ha lasciato intendere che, contrariamente a quanto dichiarato al principio, i “big” in gara potrebbero essere 26 e non 24, Claudio Fasulo, vice direttore intrattenimento prime time Rai, ha dichiarato, in merito all’utilizzo dell’autotune: “Volevo dire che da regolamento noi prevediamo la possibilità di utilizzare l’autotune come effetto vocale e non come correttore di intonazione.”
L’autotune, nato negli anni ’90 come strumento per correggere lievi imperfezioni vocali, ha rivoluzionato il panorama musicale, diventando da semplice supporto tecnico a una scelta estetica diffusa.
Tuttavia, il suo utilizzo ha acceso dibattiti accesi tra puristi e sostenitori, sollevando interrogativi sul rapporto tra autenticità e tecnologia nell’arte musicale.
Inizialmente concepito come un software per correggere le stonature, l’autotune ha trovato ampio spazio nella produzione pop e hip-hop, diventando un simbolo di modernità e sperimentazione.
Artisti come Cher con Believe e T-Pain hanno trasformato l’autotune in una firma stilistica, conferendo alle loro voci un effetto robotico e ultraterreno che ha ridefinito il suono della musica commerciale.
Oggi, il suo utilizzo spazia dall’enfatizzazione di timbri vocali in brani elettronici all’aggiunta di texture uniche in produzioni sperimentali. In questo senso, l’autotune può essere considerato uno strumento creativo, capace di ampliare i confini dell’espressione musicale.
Nonostante i suoi meriti, l’autotune è spesso accusato di minare l’autenticità delle performance vocali.
La possibilità di correggere le imperfezioni in studio ha ridotto l’importanza delle abilità vocali, trasformando il canto da un’arte basata sul talento a un processo che può essere “aggiustato” tecnologicamente.
Questo ha generato una standardizzazione delle voci e una perdita di unicità: l’autotune, quando abusato, appiattisce le caratteristiche individuali del cantante, rendendo molte produzioni simili tra loro.
Inoltre, la crescente dipendenza da questo strumento ha sollevato dubbi sulla sincerità delle performance dal vivo, dove l’assenza dell’effetto può evidenziare le carenze tecniche degli artisti.
Se da un lato l’autotune è stato utilizzato in modo innovativo da artisti come Kanye West (808s & Heartbreak) o Bon Iver, dall’altro il suo abuso ha portato a una produzione musicale sempre più omogenea.
La ricerca di perfezione vocale e l’adesione a canoni commerciali spesso impediscono agli artisti di osare e sperimentare, soffocando la spontaneità che rende la musica viva e autentica.
L’ampio uso dell’autotune riflette anche un cambiamento culturale più ampio: viviamo in un’epoca in cui la perfezione, spesso artificiale, è idolatrata.
L’autotune, in questo senso, diventa metafora di una società che valorizza più l’apparenza che la sostanza. Tuttavia, la musica ha sempre avuto il potere di emozionare grazie alle sue imperfezioni, agli errori che rendono un’esecuzione unica e irripetibile.
L’autotune è uno strumento potente che, se usato con misura e creatività, può arricchire la musica moderna. Tuttavia, il rischio di un suo abuso è quello di trasformare la musica in un prodotto sterile, privo di anima.
La sfida per gli artisti e i produttori è trovare un equilibrio tra innovazione tecnologica e rispetto per l’autenticità artistica.
In definitiva, il problema non è l’autotune in sé, ma l’uso che se ne fa. Come ogni tecnologia, esso è uno strumento nelle mani dell’artista: sta a lui decidere se utilizzarlo per elevare la sua arte o per mascherare le sue lacune.
Lo sdoganamento dell’autotune nel tempio della musica italiana, il Festival di Sanremo, risponde alla richiesta delle case discografiche il cui rapporto con il Festival, si è fatto, nel tempo, più stretto e più controverso, sollevando interrogativi sull’equilibrio tra l’autenticità artistica e le dinamiche di mercato.
Sanremo è spesso visto come una vetrina che offre una visibilità ineguagliabile, capace di lanciare carriere o rilanciare artisti in declino.
Tuttavia, è evidente come le grandi case discografiche abbiano un ruolo predominante nella selezione degli artisti e dei brani. Questo si traduce, talvolta, in un meccanismo che privilegia le strategie commerciali rispetto alla qualità artistica.
Le major investono risorse significative per assicurare ai propri artisti uno spazio sul palco dell’Ariston.
Attraverso un sapiente lavoro di lobbying, le case discografiche possono influenzare non solo le selezioni, ma anche la promozione mediatica e la costruzione del “personaggio” dell’artista, a scapito di proposte indipendenti o emergenti che potrebbero arricchire la kermesse con una maggiore diversità stilistica.
Ogni anno, le selezioni di Sanremo scatenano polemiche. I critici sottolineano come molti artisti indipendenti o appartenenti a piccole etichette vengano sistematicamente esclusi, nonostante il loro valore artistico.
Al contrario, trovano spazio nomi già affermati, spesso legati a grandi realtà discografiche. Ciò ha alimentato il sospetto che Sanremo possa essere più una piattaforma per consolidare il potere delle major che un luogo di scoperta e valorizzazione di nuovi talenti.
L’introduzione di categorie come Sanremo Giovani e l’iniziativa di Amadeus di includere volti nuovi hanno cercato di bilanciare questa tendenza. Tuttavia, anche in questo ambito, le case discografiche sembrano avere un ruolo cruciale, determinando quali artisti emergenti abbiano accesso al festival.
Il Festival, nato per celebrare la canzone italiana, si trova oggi stretto tra due anime: quella artistica e quella commerciale.
Se da un lato è innegabile che la musica sia anche un prodotto, dall’altro lato molti artisti e appassionati denunciano una standardizzazione delle proposte musicali.
Le case discografiche tendono a puntare su brani “radiofonici” e orecchiabili, sacrificando spesso l’originalità e la sperimentazione.
Questo approccio solleva una domanda cruciale: Sanremo rappresenta davvero la musica italiana nella sua complessità, o è ormai diventato uno specchio delle tendenze del mercato discografico?
Sanremo ha un potenziale unico per essere un ponte tra tradizione e innovazione.
Per farlo, però, è necessario ridurre l’influenza delle grandi case discografiche e garantire un processo di selezione più trasparente e meritocratico. Dare più spazio agli artisti indipendenti, alle piccole etichette e a generi meno rappresentati potrebbe non solo arricchire l’offerta artistica, ma anche riportare il festival a una maggiore vicinanza con il pubblico e con la realtà musicale contemporanea.
Il Festival di Sanremo non può sottrarsi al confronto con il mercato, ma ha anche la responsabilità di promuovere la qualità e la varietà della musica italiana. Trovare un equilibrio tra questi due poli è la sfida più grande per il futuro della kermesse.
Alle dichiarazioni di Claudio Fasulo ha reagito anche Luca Jurman, il vocal coach che da anni si batte perché la musica sia prima di tutto arte e talento e poi prodotto commerciale.
Di minchiate su questo software, per giustificarne costantemente l’uso smodato di molti nuovi pseudo-artisti o artisti costretti ad usarlo per moda, ne abbiamo davvero sentite troppe.
Ma mai ci saremmo aspettati che la più grossa venisse pronunciata proprio dalla direzione artistica del festival, ovvero Carlo Conti & Friends, per giustificarne appunto l’uso a Sanremo.
Intanto facciamo chiarezza una volta per tutti i suoi fondamentali, malgrado qualcuno non lo voglia sentire. L’autotune non è uno strumento, nemmeno un effetto, è un software.
Uno strumento suona, lui di suo non suona un accidente di nulla. Lui analizza e rielabora le frequenze che legge errate, riproponendole corrette, infatti si chiama autointonatore.
Il suo compito è correggere l’intonazione della voce o di uno strumento che stona, sia in modo poco percepibile che invasivo.
Si possono persino scegliere e selezionare le tonalità, le scale, le alterazioni in cui farlo intervenire. Esiste per questo.
Certo, se usato in modo esasperato, il suono finale sarà quello ormai inflazionato, metallico, robotico, povero delle armoniche naturali della voce e toglie anche espressività perché limita le dinamiche.
Ma la cosa più importante da comprendere, in verità, è che più sei stonato, più lui interviene e si sentirà di più quel tipico suono robotico. Detto questo, ciò che però più ci deve fare inorridire è che Conti & Friends, in conferenza stampa, hanno sparato la grande minchiata apertamente, senza scrupoli, tra sguardi di intese complicità, ovvero che la ragione per cui ne sarà permesso l’uso a Sanremo è per adeguarsi alle logiche delle case discografiche.
Ci sarà, perché sarebbe andare contro la logica della discografia di oggi.
Ma dico ci, rendiamo conto di cosa è stato dichiarato? Che in pratica sono costretti ad accettare che l’uso dell’autotune venga imposto dalle case discografiche dei suoi artisti. Sapete perché? Perché altrimenti non ci vanno, ovvio, perché se la maggior parte di chi dice di usarlo come effetto, dovesse dimostrare che senza è davvero una chiavica, sarebbero guai.
Infatti non ci si è resi conto che continuare a produrre dischi fatti così gli permette di non svelarsi mai, nemmeno sul palco davanti ad un pubblico pagante.
Si fa finta che sia un suono figo e creativo, fino ad autoconvincersene, così quando poi vanno dal vivo possono usarlo anche lì, con la scusa di riproporre lo stesso sound del disco. Geniale. Poi vabbè, appena si spegne nascono i guai.
Così qualcuno dice che è impostato male, ma anche su questo i veri esperti ne avrebbero da dire. Se ne avrebbero. Ma dai, secondo voi è possibile che un computer, su cui vengono salvate le tonalità delle sequenze di ogni brano di un tour, di colpo cambi tonalità? Vabbè dai, lasciamo perdere che è meglio.
Ma tanto, siccome alla fine nessuno dice nulla e nessuno si ribella a certe ingiustizie meritocratiche, loro continueranno così. Comunque, è Sanremo che dovrebbe imporre sul mercato l’arte italiana e gli artisti e non dovrebbero comandare le case discografiche, ma siccome questo lo diciamo da anni, ci fanno tutto ormai sotto i nostri occhi, perché tanto, noi italiani stiamo zitti e nemmeno gli artisti italiani dicono qualcosa di forte a riguardo e sapete perché?
Perché qui in Italia, se ti ribelli al sistema e dici la verità, ti fanno una bella slap. Che schifo.
Il pensiero di Jurman è il nostro, senza se e senza ma.
Quindi che fretta c’è di scoprire chi salirà su quel palco se, nella maggior parte dei casi, a cantare sarà sempre e solo un software?