Alex Britti: “Contro le scorciatoie, serve la gavetta”

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Le dita scorrono sulle corde della chitarra come se fossero parte viva del suo corpo. Alex Britti, cantautore romano classe ’68, è in uno studio a Trastevere, nel cuore della città che lo ha cresciuto artisticamente.
È qui che racconta il nuovo progetto Feat.Pop, una rilettura del suo celebre It.Pop del 1998 a ventisette anni dalla sua uscita. Non un anniversario canonico – “Tutti festeggiano i 25 o i 30 anni, io faccio il non anniversario”, dice sorridendo – ma un’occasione per guardarsi indietro con onestà e avanti con ispirazione.
Il progetto prende vita da un’idea chiara: rivisitare i 13 brani di It.Pop con artisti di oggi, ma senza limitarsi all’ospitata vocale.
“Voglio che ogni brano porti dentro anche il mondo sonoro del collega. Non mi interessa solo la voce: cerco un punto di incontro vero. Io vengo dal blues, ma mi sono sempre lasciato contaminare da tutto: il blues è diventato funk, poi hip hop, poi rap. È tutto collegato”.
Sono già usciti i primi due brani: Oggi sono io con Marco Mengoni e Solo una volta (o tutta la vita) con Clementino, che sarà anche ospite al concerto del 22 giugno alle Terme di Caracalla, dove Britti festeggerà 40 anni di carriera.
“Mi mancava solo quel palco a Roma. L’altro che mi manca è l’autogrill sul raccordo”, scherza.
A 56 anni, Britti guarda con lucidità al panorama musicale contemporaneo.
E critica senza mezzi termini le scorciatoie offerte dal sistema dei talent. “Oggi si passa dalla cameretta allo stadio in pochi mesi. Ma se non hai basi solide, crolli. È come iniziare l’università senza aver fatto elementari e medie. A fine anni ’80 c’erano 50 locali dove suonare dal vivo a Roma. Oggi fai un video su Instagram e sei già un prodotto”.
Il riferimento è anche ad alcuni recenti casi emblematici: “Angelina Mango, Sangiovanni… Si parla di loro perché sono riusciti a emergere, ma dietro ci sono decine di ragazzi che, dopo il talent, spariscono. Hanno assaggiato un successo finto, e poi vengono dimenticati. Tanti finiscono in analisi. È una macchina che macina troppo in fretta”.
Lui, le scorciatoie le ha sempre evitate. “A me il successo arrivò all’improvviso nel ’98, ma ero preparato. Avevo fatto gavetta in tutta Europa: Parigi, Anversa, Dortmund. Ero strutturato, sapevo cosa volevo. La mia popolarità dovevano averla le canzoni, non la mia faccia”.
Anche per questo, forse, oggi Sanremo gli chiude le porte. “Ho mandato delle canzoni negli ultimi anni, ma niente. Non ho una major dietro, non ho merce di scambio. Il Festival è sempre più un club ristretto, guidato da pochi manager e poche etichette. Io sono un cantautore vecchia scuola, fuori moda”.
Britti non nasconde la distanza da certi modelli attuali. “Lucio Corsi è bravo, ma è un cantautore Instagram. Prima arriva l’immagine, poi la musica. Io sono di un’altra generazione. Se mi parli di cantautori, penso a De Gregori, non a chi si trucca per essere riconoscibile”.
Eppure non c’è amarezza, né nostalgia. Solo lucidità e voglia di rimanere coerente. “Ho rallentato la carriera per recuperare la vita. Suono tanto, sto con mio figlio, vivo bene. Sanremo lo guardo a casa di Federico Zampaglione, alzando il volume quando serve”.
Tra i giovani artisti, apprezza Alfa: “Lo ascolta mio figlio, e piace anche a me. Sembra semplice, ma ha una profondità sana. È diretto, pulito”. E il sogno nel cassetto resta un duetto con Renato Zero: “È il primo che ho visto dal vivo. Gli ho mandato un messaggio. Canterei qualsiasi cosa con lui”.
Nel frattempo, Feat.Pop è in lavorazione. Ci vorranno sei mesi, forse di più. “Non ho fretta, non ho niente da dimostrare. E con due note di chitarra, alla fine, mi riporto tutto a casa”.