Arabia Saudita, l’orrore delle carceri Dar al-Reaya

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In Arabia Saudita, dietro la facciata di riforme modernizzatrici e proclami sull’emancipazione femminile, si nasconde una realtà brutale e opprimente che colpisce centinaia di ragazze e donne ogni anno.
Le cosiddette Dar al-Reaya – strutture presentate ufficialmente come “case di cura” – sono in realtà veri e propri centri di detenzione in cui giovani donne vengono rinchiuse per aver infranto le regole patriarcali o semplicemente per essere state vittime di abusi.
Queste strutture, create negli anni ’60 con l’intento dichiarato di riabilitare donne accusate di reati morali, oggi fungono principalmente da prigioni per coloro che vengono giudicate “disobbedienti” dai propri tutori maschi.
L’organizzazione per i diritti umani ALQST ha documentato gravi violazioni: pestaggi, isolamento prolungato, fustigazioni, malnutrizione, test di verginità, e somministrazione forzata di sedativi.
Il contesto è tale che molte detenute preferiscono la morte alla permanenza in questi centri. Alcune si sono suicidate, altre hanno tentato la fuga arrampicandosi sui tetti, in scene documentate da video strazianti.
Sarah Al-Yahia, oggi attivista, ha raccontato al Guardian che suo padre minacciava di mandarla a Dar al-Re’aya se non avesse obbedito ai suoi abusi sessuali.
In molti casi, è proprio la vittima – e non l’aggressore – a essere internata, per “salvare l’onore” della famiglia.
Le ragazze vengono chiamate con numeri invece che per nome e sono punite per azioni come non pregare, restare sole con un’altra donna, o anche solo per aver pubblicato contenuti femministi sui social.
L’accesso e l’uscita da queste strutture dipendono esclusivamente dal permesso di un parente maschio, spesso lo stesso abusatore che ha causato l’internamento.
Chi non ha un tutore disponibile o disposto ad assumersi la responsabilità viene trasferita a Dar al-Theyafa, una struttura per “ospiti” dove le condizioni non sono diverse. Le donne che superano i 30 anni nei centri non vengono liberate, ma spostate in queste nuove prigioni sotto altro nome.

Nel 2019, Kholoud Bariedah ha denunciato pubblicamente le torture subite, come le 2.000 frustate ricevute per aver partecipato a una festa mista. Dopo essere fuggita in Germania, ha rivelato che molte ragazze in isolamento sviluppano gravi disturbi mentali e si infliggono ferite per disperazione.
Nonostante i proclami ufficiali del Regno e la sua presidenza nell’ONU per la parità di genere, le testimonianze parlano di un sistema che opprime, punisce e annienta le donne.
Mentre i riflettori internazionali applaudono le riforme cosmetiche, nelle Dar al-Re’aya si consuma ogni giorno un inferno silenzioso che il mondo non può più ignorare.