Benson Boone: talento da Rockstar, canzoni da rivedere

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Con un talento vocale fuori dal comune e una personalità da showman, Benson Boone ha tutto per brillare — ma il suo secondo album, troppo serio e poco ispirato, non è ancora il grande salto che ci aspettavamo.
In un panorama pop internazionale dominato da figure femminili brillanti, dalla verve ironica di Sabrina Carpenter alla forza emotiva di Billie Eilish, la presenza maschile sembra essersi ritirata in un angolo contemplativo, spesso soffocato da ballate zuccherose e confessioni in tonalità minori.
Ma poi arriva Benson Boone, con una maglietta che recita “One Hit Wonder” e un atteggiamento da rockstar anni ’70, pronto a rompere lo schema con un mix di ironia, spavalderia e una voce che, da sola, potrebbe spostare le montagne.
Eppure, con American Heart, il suo secondo album, Boone dimostra che il talento vocale non sempre basta a costruire un’opera memorabile.
Il paradosso è evidente: Boone è un interprete capace di incantare con la sola estensione vocale, ma si ritrova spesso intrappolato in canzoni che sembrano non meritare la sua voce.
Dopo l’enorme successo di Beautiful Things, il brano più ascoltato in streaming del 2024, ci si poteva aspettare un salto in avanti, un album che consolidasse la sua figura di outsider carismatico nel pop contemporaneo.
Invece, American Heart si rivela un disco che – salvo rare eccezioni – resta ancorato a uno stile troppo serio, troppo impostato, e raramente divertente, spontaneo.
Brani come Mystical Magical e Sorry I’m Here for Someone Else sono tra i pochi momenti in cui Boone riesce a far filtrare quel senso di autoironia e teatralità che tanto bene funziona nella sua immagine pubblica.
Il primo è un brano d’amore strampalato, pieno di versi nonsense e sciocchi come “moonbeam ice cream” (gelato al raggio di luna) o “get you ready for my polygon” (ti preparo per il mio poligono), che proprio perché esagerati finiscono per affascinare.
Il secondo, invece, mostra una maturità narrativa: è una ballata pop che racconta l’imbarazzo e il rimpianto di rivedere un vecchio amore nel momento sbagliato. In entrambi i casi, Boone riesce a colpire un equilibrio tra sentimento e performance che altrove sfugge.
Ma per ogni canzone riuscita, ce ne sono almeno due che cadono nel melodramma privo di mordente. Wanted Man, con il suo tentativo di evocare un immaginario glam-rock, sembra più un esercizio di stile scolastico che un’esplosione di energia.
Man in Me alza la posta emotiva fino al punto di rottura, ma manca della sottigliezza necessaria per evitare l’effetto soap opera.
La sensazione più frustrante è che Boone potrebbe essere il performer maschile che il pop stava aspettando: ha il carisma, ha l’autoironia, ha persino il coraggio di portare i baffi da porno anni ’70 in un’epoca che ancora li guarda con sospetto.
Ma i limiti della scrittura e della produzione – in gran parte curata dal collaboratore abituale Jack LaFrantz – lo trattengono. Dopotutto, l’intero album è stato scritto in soli 17 giorni. E si sente.
Eppure, quando Boone si affida a qualcuno come Malay (già produttore di Frank Ocean e Lorde), come in I Wanna Be the One You Call, il salto qualitativo è evidente: è l’unico brano dell’album che suona davvero contemporaneo, dinamico, ispirato.
Un segnale chiaro: per il prossimo progetto, Boone dovrebbe circondarsi di una squadra più ambiziosa, di autori e produttori che sappiano elevare la sua cifra stilistica, senza appiattirla.
American Heart non è un disastro. È il ritratto di un artista giovane, forse troppo preso dal dimostrare quanto possa essere serio, maturo, emotivamente profondo.
Ma ciò che manca davvero è quella scintilla di leggerezza, di sfacciataggine, che lo renderebbe unico nel suo genere. Boone ha ancora tutto il tempo per scrivere la sua Bohemian Rhapsody — ma prima deve imparare a prendersi meno sul serio e divertirsi di più.