Gaia si racconta la lotta silenziosa conto il caos interiore

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Oggi la diabolica trinità è venuta a farmi visita.
Con queste parole si apre una riflessione profonda e intensa condivisa da Gaia solo ieri, che più che un semplice post sembra una finestra aperta sul cuore e sulla mente di chi, come lei (e molti di noi), si trova a convivere con il senso di vuoto, l’ansia e la solitudine.
Tre presenze invisibili, eppure tanto ingombranti, che si presentano con garbo, ma finiscono per dettare legge, colonizzando corpo e anima.
Questa “trinità” non arriva mai per caso. Si insinua nei momenti di maggiore fragilità, occupa gli spazi interiori e prende il controllo, silenziando la parte più autentica di sé.
Gaia la descrive come un’occupazione gentile, quasi rispettosa, ma che nel giro di poco tempo rende l’anima ostaggio. È una descrizione potente, viscerale, che ci mette davanti a un fenomeno tanto comune quanto sottovalutato: l’auto-sabotaggio emotivo.
Spesso, racconta Gaia, si ritrova intrappolata in loop mentali che somigliano a certi gironi danteschi.
Uscirne diventa una sfida karmica, una battaglia interiore in cui ogni risposta sembra portare sempre più lontano dalla luce, più vicina all’oblio.
È facile perdersi così, bastano pochi pensieri fuori posto, e l’intervista interiore prende il sopravvento, quella vocina che non vuole unire ma dividere. Dividere da sé stessi, dagli altri, da tutto ciò che ci riconnette alla vita.
Seduta su un treno da Roma a Milano, Gaia ripercorre la tratta dei suoi ricordi. È un viaggio reale, ma anche profondamente simbolico: rappresenta un ritorno a se stessa, al suo passato, ai suoi inizi.
La capitale le ricorda gli amori nati nella “città eterna”, le prime responsabilità, i primi vuoti che nessuna carezza o rassicurazione genitoriale poteva più colmare. Il déjà vu è inevitabile, così come l’inquietudine. E allora, ancora una volta, cerca di riempire quel vuoto.
Lo ha fatto viaggiando tanto — dentro e fuori di sé. Dalle foreste amazzoniche alle spiagge islandesi, dalle risaie vietnamite a ogni angolo di mondo che potesse offrirle una risposta.
Ma la conclusione non è mai arrivata. Non perché manchino risposte, ma perché a volte ciò che cerchiamo non è fuori, ma dentro. E lì, spesso, non vogliamo guardare.
In questo cammino, Gaia riconosce quanto sia facile cadere nella trappola dei falsi rimedi. Meditazione, scrittura, visualizzazione: strumenti utili, sì, ma che non eliminano davvero il problema se non si ha il coraggio di affrontare la radice.
Spiega come i piccoli piaceri momentanei — i “rush” dopaminici — possano diventare come cerotti su ferite profonde. Ma quelle ferite, dice, vanno lasciate respirare. Vanno ossigenate. Non basta mettere una toppa sul dolore: serve spazio, ascolto, tempo.
Alla fine, Gaia si mette a nudo con una lucidità disarmante.
Ammette di aver dato troppo potere agli altri: la propria felicità, i sogni, la riuscita dei suoi obiettivi. E dentro di sé c’è ancora una bambina che chiede solo di essere vista, amata, accettata. Senza dover dimostrare nulla, senza essere “la brava”, senza dare fastidio. Solo per il diritto di esistere.
Questa è una confessione che parla a tanti, forse a tutti. Perché ognuno, in un modo o nell’altro, ha una parte di sé che cerca approvazione, che teme il giudizio, che si perde nel rumore del mondo.
Ma, come Gaia ci ricorda, forse la vera evoluzione personale non sta nel trovare una risposta perfetta, ma nel lasciarsi attraversare dal vuoto senza farsene schiacciare. Nell’accettare l’inquietudine come parte del processo. Nell’essere, prima ancora che nel fare.
Un racconto che commuove, ispira e soprattutto connette. Perché in fondo, anche nel caos, l’universo ha sempre un disegno. E ogni frammento, anche quello più oscuro, ha un posto preciso nel nostro cammino.