L’ombra del “Call-Out”: storie di fango mediatico, chat segrete e femminismo al bivio
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Il “call-out”, da strumento di denuncia, si è trasformato in un campo di battaglia digitale dove l’odio può mascherarsi da giustizia sociale. interroga la vera natura di certi “commando femministi” del web.
Al centro di un vortice di accuse, linciaggio mediatico e indagini giudiziarie, spiccano le vicende interconnesse di Serena “Doe” Mazzini e di alcune note attiviste social, tra cui Carlotta Vagnoli e Valeria Fonte. Una narrazione complessa che svela il lato oscuro del “call-out” e interroga la vera natura di certi “commando femministi” del web.
Il giorno in cui la vita si è fermata: il caso Serena Mazzini
Tutto ha inizio il 3 giugno 2024. Serena “Doe” Mazzini, social media strategist e content editor con un passato di collaborazione con Selvaggia Lucarelli e un impegno in progetti legislativi sull’esposizione dei minori, si ritrova travolta da una valanga di accuse senza fondamento.
Un “call-out” violento, amplificato da decine di profili social con oltre un milione di follower complessivi, la dipinge come una figura diametralmente opposta alla sua storia professionale e personale.

Le accuse erano pesantissime: essere a capo di un presunto gruppo omofobo e misogino dedito alla condivisione di materiale intimo non autorizzato.
Un’infamia basata su “sentito dire, guidati dall’invidia o semplicemente inventate di sana pianta”, come racconta la stessa Mazzini. Il fango ha presto preso la forma di epiteti pubblici, con attiviste come Carlotta Vagnoli che la definiva la “Bibbia dello stupro” e Valeria Fonte che la bollava come misogina.

Nonostante la storia di Mazzini fosse nota e smentisse le accuse, la “massa” ha preferito seguire la corrente, trasformando calunnie infondate in “verità incontestabili”.
Il risultato è stato devastante. “In pochi giorni non ero più una persona, ma un bersaglio”, scrive Serena, travolta da meme, insulti, email bombing al datore di lavoro, e da un crollo psicologico che l’ha portata a “desiderare di morire” e a sviluppare una sindrome da stress post-traumatico.
L’assoluzione a caro prezzo
Dopo quindici lunghi mesi di calvario, il 2 settembre 2025, la verità è emersa in sede giudiziaria. Il tribunale ha riconosciuto che Serena Mazzini non ha diffamato nessuno e non è mai stata a capo di gruppi misogini. La denuncia di Carlotta Vagnoli, colei che l’aveva accusata in modo più virulento, è stata archiviata per mancanza di fondamento.
L’assoluzione è giunta a caro prezzo, lasciando in Serena un senso di vulnerabilità e la triste consapevolezza che l’attacco non era per “attivismo”, ma per pura distruzione. La sua vicenda ha acceso i riflettori su quanto l’odio social, mascherato da battaglia morale, possa diventare lesivo per chi ne è vittima.

La “gogna digitale” e l’inchiesta di Monza
La storia di Serena Mazzini si è intrecciata con un’inchiesta molto più ampia. Carlotta Vagnoli e Valeria Fonte, insieme all’attivista Benedetta Sabene, sono state infatti indagate dalla procura di Monza per stalking e diffamazione.
L’accusa non riguarda solo il call-out contro Mazzini, ma anche l’aver condotto una “campagna denigratoria” ai danni di un ragazzo, reo di aver lasciato un’amica delle attiviste.
Il pubblico ministero Alessio Rinaldi ha parlato di “vessazione pubblica” e “gogna digitale”, un vero e proprio “annientamento dell’immagine pubblica e privata” che ha portato la vittima a un tentato suicidio.
In questo contesto, il ruolo delle attiviste nella gogna mediatica contro Serena Mazzini, accusata di essere parte di un gruppo di dossieraggio, ha assunto un peso ancora maggiore, portando a un’indagine per stalking anche in questo frangente (oltre al reato di diffamazione).
L’inchiesta ha portato al sequestro di dispositivi e alla scoperta della chat di gruppo “Fascistella”, in cui Carlotta Vagnoli e Valeria Fonte, insieme ad altri, scambiavano conversazioni che hanno rivelato una “distanza siderale” tra la loro immagine pubblica di paladine dei diritti e le loro parole private.

Nelle 2.184 pagine di chat, emergeva un tono violento e osceno, con insulti rivolti a figure pubbliche di spicco, tra cui:
- Sergio Mattarella: “Vecchio di merda”.
- Liliana Segre: “Vecchia nazi”.
- Michela Murgia: Giudicata “in gran parte una persona di merda” con allusioni a presunte evasioni fiscali.
- Selvaggia Lucarelli: Definita con epiteti come “Un cancro di quelli recidivi con metastasi al buco del…”.
- Cecilia Sala: Bersagliata con parole “sconcertanti” proprio mentre era detenuta in Iran, dove il commento era: “Ha dato una svolta definitiva alla sua carriera”.
Il gruppo era anche attivo nella creazione di “liste punitive”, tra cui una “Lista nera” di 14 nominativi, tra cui politici come Giuseppe Civati e Dino Giarrusso, e artisti come Lodo Guenzi, contro i quali “puntare il dito” con l’intento di organizzare una “shitstorm”, senza curarsi della mancanza di denunce o prove.

Femminismo al bivio: l’appello alla riflessione
La vicenda di Serena Mazzini, pur essendo un doloroso esempio di linciaggio individuale, funge da catalizzatore per un’analisi più profonda sul metodo di attivismo adottato dal gruppo ora sotto indagine.
La scoperta delle chat “Fascistella” e la gestione del “call-out” non rappresentano un semplice errore di valutazione, ma rivelano una prassi sistematica di gogna digitale, diffamazione e stalking mascherata da giustizia sociale.
Le loro azioni, culminate in “liste nere” e insulti gratuiti anche verso figure storiche e l’ex compagna di militanza Michela Murgia, hanno sollevato un coro di indignazione e allarme.
Questa inchiesta pone un interrogativo fondamentale sulla credibilità e sui confini dell’attivismo online.
Come ha avvertito Selvaggia Lucarelli, si tratta di riflettere su come “il femminismo radicale [stia] mettendo in pericolo quello sano e necessario”. L’appello ora è per tutti: utenti, attivisti e influencer.
La storia di questo “commando” insegna che la facilità di commentare o rilanciare un post senza verifica può trasformarsi in un atto lesivo con conseguenze reali e drammatiche.
È imperativo distinguere tra la giusta battaglia per i diritti e la tossicità di un odio organizzato, esortando la comunità del web a riaffermare l’importanza della verità, della verifica e del rispetto.
